Cina: viaggio nella controversa regione dello Xinjiang

Credo per ognuno di noi ci siano dei luoghi il cui nome - spesso dal suono esotico - basta a evocare immagini suggestive e un senso di avventura o semplicemente di viaggio che si tramuta in un’idea sempre più insistente fino a diventare un’ossessione. Per me alcuni di questi nomi sono Tien Shan e Taklamakan, due luoghi entrambi situati nella Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang nel nord-ovest della Cina: il primo indica l’imponente catena montuosa con vette che superano i 7000 metri (il nome significa montagne celesti) che separa la regione in due grandi bacini, quello della Zungaria a nord e quello del fiume Tarim a sud e, spingendosi più a ovest, divide il Kazakistan sudorientale dal Kirghizistan; il secondo, invece, è il nome del deserto più grande della Cina, che occupa quasi interamente l’enorme bacino del Tarim. Nella lingua uigura questo nome viene tradotto con l’espressione “se entri, non esci più”. Si tratta, infatti, di un deserto mobile estremamente pericoloso dove solitamente nelle mattine primaverili e autunnali si scatenano dei violenti e improvvisi uragani di sabbia e ghiaia, chiamati karaburan (dal turco kara, nero e dal russo buran, tormenta, che indica anche un vento proveniente dalla Siberia), che oscurano completamente il cielo e inghiottiscono qualunque cosa si trovi nelle vicinanze. Nei secoli passati i viandanti e i commercianti che seguivano su carovane le strade che costituivano la Via della Seta parlavano con terrore di questo deserto, soprannominato “mare della morte” e quelli che dovevano comunque entrarvi tenevano l’orientamento con le ossa delle persone e degli animali che riemergevano dalla sabbia. Per evitare di attraversare il deserto si svilupparono due principali vie carovaniere, una settentrionale e una meridionale (percorsa da Marco Polo) che seguivano il corso dei fiumi, tra cui appunto il Tarim, che nasce dalla confluenza nel deserto di altri fiumi originanti dal Tien Shan, dal Pamir e dai monti Kunlun. Oltre ad avere un sottosuolo ricco di petrolio e gas naturali, il territorio ai margini del Taklamakan è reso fertile dalla presenza del fiume, lungo il quale nel tempo sorsero città-oasi, alcune ancora presenti; pertanto, abbonda di campi destinati alla raccolta del cotone e alla coltivazione di frutti come pere, meloni, uva e albicocche.
Ad accrescere ulteriormente l’interesse che questa regione suscita contribuì la scoperta da parte dell’esploratore e geografo svedese Sven Hedin alla fine dell’800 di antiche città e di mummie ancora in ottimo stato di conservazione per via del clima molto arido (esposte nel museo di Ürümqi e di Korla), risalenti al 1800/2000 a.C.; dallo studio dei corpi e del DNA si scoprì che si trattava di persone non asiatiche, bensì indoeuropee (secondo alcuni, originari del nord Europa per via degli occhi azzurri e di una folta barba rossiccia), fatto che confermò l’ipotesi che già in antichità c’erano stati contatti tra popolazioni estremamente lontane tra di loro.
Negli ultimi anni ho letto diversi libri riguardanti l’Asia Centrale e la Via della Seta, perciò ho incontrato diverse volte i due nomi citati in precedenza e come passavo da un libro all’altro, il desiderio di vedere dal vivo quei paesaggi tanto lontani quanto sognanti diveniva sempre più forte.

Deserto del Taklamakan

Solitamente quando si pensa alla Cina, emerge un calderone di immagini di pagode, della Grande Muraglia, di panda o di festose e pittoresche celebrazioni con variopinti costumi raffiguranti dragoni e con un sottofondo musicale composto da una voce femminile che accompagna i lamenti di un erhu; tuttavia, questa non è la Cina che volevo inizialmente conoscere (i panda sì, in realtà). Dentro di me sapevo che la prima volta sarebbe stata in una Cina diversa. D’altronde, è un Paese talmente vasto che gli usi e i costumi possono cambiare radicalmente da una regione all’altra.
Lo Xinjiang, letteralmente “nuova frontiera” ma chiamato nelle fonti più antiche Turkestan cinese e in seguito Turkestan Orientale, soprattutto dai movimenti indipendentisti, è grande - si dice - tre volte la Francia e sette l’Italia e confina con ben otto Stati: Mongolia, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan e India. Al suo interno vivono numerosi gruppi etnici, il più rappresentato dei quali è quello degli Uiguri, una popolazione turcofona musulmana originariamente nomade proveniente dalla zona della Mongolia/monti Altai che si insediò nello Xinjiang nel nono secolo.
Lo Xinjiang e il Tibet sono le uniche regioni dell’intero territorio cinese in cui gli han (il gruppo etnico principale in Cina) non sono l’etnia prevalente. Man mano che mi spostavo a ovest nel corso del viaggio, infatti, i volti che incontravo erano sempre più uiguri o appartenenti ad altre etnie, quindi Kazaki, i Kirghizi e i Tagiki, soprattutto a sud della città di Kashgar in direzione di Tashkurgan.
Già solo questa grande varietà di popoli e tradizioni è sufficiente a rendere affascinante lo Xinjiang, che per la sua posizione vicina a diversi passi di confine, rappresenta da sempre un territorio di fondamentale importanza nei commerci tra Oriente e Occidente, sia per quella che era la vecchia Via della Seta che per quella nuova, chiamata BRI o Belt and Road Initiative, che mira a creare ancora più opportunità e scambi tra culture lontane, non senza dubbi e problematiche relative alla sua realizzazione.

Lago a 3300 metri di altitudine lungo la Karakorum Highway

Spiegare anche velocemente la storia della regione, analizzando i vari regni che si sono succeduti nel corso dei secoli e ponendo attenzione all’attuale rapporto ambiguo tra il governo cinese e le etnie che risiedono all’interno della regione, specialmente quella uigura, è un compito ambizioso e arduo che va ben al di là delle mie competenze, perciò mi limiterò a condividere le impressioni e a condividere qualche fotografia di questo lungo viaggio di 17 giorni iniziato a Ürümqi e terminato a Kashgar.

Zona di pascoli tra le ramificazioni del Tien Shan

Se dal punto di vista paesaggistico molti luoghi mi hanno lasciato a bocca aperta, - dopo tutto, ho finalmente visto il Tien Shan, il Taklamakan e altre catene montuose a lungo sognate come i monti Kunlun con le sue file di vette aguzze che ricordano le scaglie di un coccodrillo e il Pamir, soprannominato il tetto del mondo - purtroppo non posso dire lo stesso per le città, le quali, comprese le più note come Hotan e Kashgar, centri culturali e commerciali di vitale importanza, per lo meno ai miei occhi si sono rivelate deludenti e ridondanti.
Non sono riuscito a ritrovare le stesse atmosfere incontrate nelle pagine dei libri che raccontavano le meraviglie e le stranezze di queste città dai nomi lontani ed esotici, probabilmente anche per via del fatto che molti dei centri urbani sono stati ricostruiti e gli edifici che vi sorgevano prima sono stati rimpiazzati da una schiera di freddi e identici palazzi di dubbio gusto che si sviluppano in altezza, ma a dirla tutta anche dai mercati mi aspettavo qualcosa di più autentico rispetto alle bancarelle dall’aspetto molto turistico che esponevano le stesse merci ogni dieci metri.
Mi ha fatto una strana impressione l’incontro per le vie della città vecchia di Kashgar con un violinista che, speaker ai piedi, suonava la melodia di brani occidentali come Despacito o la Lambada, mentre un videomaker metteva in posa una coppia per rendere più accattivante il “contenuto”.
Al di là di questo aspetto, in ogni città ho notato molta curiosità da parte della gente del posto, soprattutto da parte dei ragazzi e delle ragazze che mai o di rado avevano visto dei volti diversi e stranieri e, di conseguenza, fotografavano me e i miei compagni di viaggio di nascosto oppure dopo un gesto o una richiesta in cinese o in un inglese stentato. Lo Xinjiang è una delle regioni cinesi meno note a livello internazionale, se non per le questioni dei diritti umani legate agli Uiguri che la riguardano; perciò, gli unici turisti che le persone sono abituate a vedere sono essenzialmente cinesi o di Paesi confinanti. Dopo essermi fatto una fotografia con lei, una ragazza mi ha confidato di non aver mai visto un italiano prima di quel momento.

Man mano che ci avvicinavamo alla fine del viaggio la stanchezza cominciava a farsi sentire, così come la voglia di ritornare alle comodità domestiche, - dopo tutto, abbiamo fatto 4000 km in macchina e ogni giorno c’erano almeno tre o quattro ore di spostamenti - ma ecco che alla nostra guida uigura venne l’idea di rendere ancora più interessante il giro. Il penultimo giorno di viaggio il programma consisteva nel raggiungere Tashkurgan, una città prevalentemente tagika situata a 3094 metri, anche se quei Tagiki non sono esattamente gli stessi del Tagikistan, successivamente visitare alcuni luoghi nei dintorni, trascorrervi una notte e il giorno seguente (che sarebbe stato l’ultimo prima del rientro) riprendere la strada a nord per Kashgar. La proposta accolta subito con entusiasmo è stata di anticipare Tashkurgan al giorno precedente, aggiungere una notte lì (togliendone così una delle tante a Kashgar) e da Tashkurgan spingerci ancora più a sud fino ad arrivare al passo Khunjerab, il valico di frontiera più alto al mondo situato a poco meno di 4700 metri tra Cina e Pakistan. Sulla strada del ritorno abbiamo incluso una breve sosta anche nel punto in cui la strada si interrompe di fronte a una valle chiusa da montagne oltre le quali comincia l’Afghanistan con il corridoio del Wakhan. Mai prima di quel momento ero salito così in alto e infatti ho sentito gli effetti dell’altitudine, che seppur lievi mi hanno obbligato a tornare in hotel per riposare e riprendermi in vista del giorno successivo, anziché proseguire con i miei compagni di viaggio per l’ultima tappa della giornata che ci avrebbe riportato a 4500 metri.

Karakul, 3600 metri

Organizzare un viaggio nello Xinjiang non è semplice, non tanto perché sia complicato arrivarci, - ad eccezione di certe zone che richiedono dei lasciapassare speciali difficili da ottenere, non serve alcun permesso per visitare città come Ürümqi, Kuqa, Hotan o Kashgar - quanto per la scarsità di informazioni reperibili su internet, il che forse lo rende più intrigante. Ovviamente esistono numerosi tour già pronti delle varie agenzie, ma creare un giro personalizzato richiede tempo e fatica e soprattutto bisogna considerare la possibilità che la richiesta di vedere alcuni luoghi venga respinta, proprio a causa del fatto che in rete si trova poco materiale, perciò è quasi impossibile sapere prima se una precisa zona è visitabile.
Al tempo stesso, per tutto ciò che questa regione ha da offrire, dalla sua storia, dalle tante etnie che ci vivono, all’atmosfera che permea le strade di sera quando sale la frescura e alla bellezza dei paesaggi naturali, ritengo che sia stata una delle esperienze di viaggio più arricchenti e appaganti che io abbia mai vissuto, grazie anche al gruppo di persone che si sono unite e alla guida estremamente preparata e paziente con cui alla fine ci siamo salutati da amici con la speranza di rivederci presto.

Monti e colline poco prima del tramonto, Tien Shan

Elenco di libri che mi hanno preparato a questo viaggio:

  • “La frontiera”, Erika Fatland

  • “La vita in alto”, Erika Fatland

  • “La Via della Seta”, Franco Cardini

  • “Xinjiang «nuova frontiera». Tra antiche e nuove vie della seta”, Maria Morigi

  • “Ombre sulla Via della Seta”, Colin Thubron

  • “Il grande gioco”, Peter Hopkirk

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